" Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond'io nutriva 'l core in sul mio primo giovanile errore quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono... "

sabato 16 gennaio 2010

LA LUNA DI LEOPARDI, LA FALCE DI D’ANNUNZIO, LA DEA PINDEMONTE

Gli uomini, si direbbe, son come il mare: azzurro capovolto che riflette il cielo. Osservatori instancabili di un’eterna bellezza che guarda, forse annoiata, qual messe di sogni che ondeggia al suo mite chiarore qua giù. Invidiosi, altro non hanno potuto se non interrogare, retoricamente, quella cerea sfera, o quella falce argentea, facendola diventare ora buona consolatrice, ora guida sicura, ora superba osservatrice. Pur sempre lontana, sempre irraggiungibile! Indescrivibile, se non attraverso la poesia: anelito dell’uomo verso l’eterno. Lo stesso infinito che permea l’intera produzione del Leopardi: è evidente, altresì, come quella stessa bellezza, infinita ed eterna appunto, si presenti costantemente in diverse liriche come Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La sera del dì di festa, Alla Luna, L’ultimo canto di Saffo. E se, dapprima, la luna permette al poeta di descrivere al meglio il paesaggio notturno,

Dolce e chiara è la notte e senza vento, e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna…


successivamente si crea un rapporto più confidenziale, meno distaccato, che porta, inevitabilmente, l’uomo, il poeta, il pastore, ad una riflessione, ad una conoscenza del reale superiore a quella che sarebbe concessa se non si fosse rapportato all’infinito.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?


Il poeta non parla in prima persona: ciò che viene detto è esplicitato per mezzo di un uomo primitivo, semplice ed ingenuo. È noto come nella prima fase del pensiero leopardiano, detta Pessimismo Storico, il poeta ritenesse i primitivi più vicini alla natura, inconsapevoli della verità e quindi più felici dell’uomo moderno. Nella lirica analizzata, invece, l’uomo primitivo è filosofo così come gli uomini civilizzati: ed essendo tale, ha consapevolezza della propria infelicità. Si potrebbe affermare, semplificando il concetto, che le domande che si pone il pastore sono le stesse che attanagliano il Leopardi. La constatazione dell’assoluta ignoranza umana sul perché della vita, congiunta alla certezza che essa è dolore, terminando nella morte e nel nulla, portano alla conclusione che la vita stessa è male. Da un punto di vista filosofico nasce, in questi versi, il sentimento della noia, riflesso in questa scoperta vanità. Da un punto di vista meramente concettuale, la bellezza del canto non consiste nei singoli ragionamenti che lo compongono, ma nel senso sgomento del nulla e dell’angoscia dell’uomo, sperduto in un universo incomprensibile e sterminato. Il pastore è l’uomo, certamente! L’uomo nel suo vano e monotono peregrinare terreno, disperatamente solo nel deserto del mondo. La luna, contrariamente, bella e infinitamente lontana, è l’immagine della natura, che sembra suggerire una promessa d’infinito, di felicità, evocata dalla sua stessa bellezza. E pur osserva impassibile e muta il destino dell’uomo. Essa è l'interlocutore verso il quale il pastore rivolge i suoi lamenti, pur sapendo di non ricevere risposta alcuna. La luna è l'infinito, l'eterno e l'immortale! Si potrebbe ancora dire, in un tentativo di miglior esegesi, che il pastore vede la luna simile a se, cercando di abbracciarla, di fondersi con essa: ciò però è impossibile. In quest’ottica egli simboleggerebbe lo spaurirsi dell'uomo davanti all'universo, del quale si sente parte ma che invano cerca di capire. Il pastore è anche il simbolo della prigionia della vita, e del disagio che si prova nel non poter far nulla per rompere la sua monotonia. E se in Leopardi l’astro è spunto per una riflessione filosofica, totalmente diverso risulta l’approccio del D’Annunzio: nella sua O falce di Luna calante, che ricorda il verecondo raggio della cadente luna, sempre di leopardiana memoria, il poeta, traendo ispirazione da un tramonto lunare sulle acque del mare, rafforza l’origine sensuale della propria opera. Tale sensualità altro non sottolinea se non il senso di appartenenza alla natura e la mimesi con essa, sublimata definitivamente nella Pioggia nel Pineto. Si vien a contatto in questo caso con il panismo dannunziano, legato al contatto con la natura, in cui il poeta si immerge sensualmente e dilata i confini del proprio io, diventando parte, come già detto, della natura stessa; questa concezione profondamente irrazionalistica si permea di tenera musicalità che sovrasta la spossatezza d’amore e di piacere che avvolge i dormienti, che trasforma il tradizionale accenno al risposo, già presente in Omero, in una nota di vitalità sensuale. Totalmente diversa, infine, sia a livello contenutistico, sia formale, si presenta la lirica di Ippolito Pindemonte che, a parer mio, si esercita in un effimero componimento virtuosistico. La luna perde i connotati di una natura più universale, per chiudersi in un abito che potremmo definire pagano e voluttuoso. Il componimento del Pindemonte, difatti, può essere inteso come una descrizione pagana di Selene, la luna trasportata su di un cocchio circondato da Riposo, Calma, Vaghezza, Piacer e gioconda Tristezza, che ammutoliti la osservano, invisibile al vulgo sottostante. La luna è per il poeta, in questo caso, musa ispiratrice che lo accompagnerà tutta la vita, allor che infermo e stanco trarrà nelle giornate ultime il fianco. Da un punto di vista formale le tre opere analizzate si presentano molto differenti: la prima è caratterizzata da sei strofe libere di endecasillabi e settenari variamente alternati. Tutte le strofe presentano rime al mezzo e si chiudono con la medesima rima in -ale. È indubbiamente uno dei più bei canti scritti dal Leopardi. In esso troviamo tutta la forza della infelicità che da uno stato sentimentale di ansia furibonda passa ad uno stadio di rassegnazione, di coscienza del male che incombe sugli uomini. Non un attimo di piacere, ma un rendersi progressivamente conto che la vita nulla riserva di bene all'individuo, un ripiegarsi continuo e sempre più profondo su se stesso, su una realtà che ormai ben poco concede al mondo e alla natura. La seconda, più breve, è composta da tre strofe tetrastiche formate da due novenari e due dodecasillabi, l’ultimo dei quali è tronco. La versione analizzata risale al 1896, l’ultima, che differisce dalla prima, edita nel 1892, solo nel verso 6 che suonava di fiori, di frutti da’l bosco. L’ultima, infine, è una lirica composta da 120 versi raggruppati in quindici ottave di settenari e decasillabi variamente disposti, ma che terminano costantemente con due endecasillabi in rima baciata. Lo schema metrico, difatti, segue una rima di questo tipo: AA BCBC DD.

I SIGNIFICATI DELLA COMMEDIA: Messaggio universale in codice polisemico

L’ambiguità lessicale è una caratteristica fondamentale della lingua, sia essa neolatina o anglosassone; le parole, i singoli lemmi quindi, possono possedere più di un significato distinto: le parole inglesi, praticizzando il concetto, posseggono, ad esempio, ciascuna circa 7,8 significati, in media. Si può ben capire, allora, che traslando il discorso ad un piano più tipicamente artistico – letterario, allontanandolo dalle variazioni presenti nel comune discorrere quotidiano, ciò che l’artista, il poeta, il veggente tenderebbero a realizzare è lo sforzo di condurre oltre il testo il lettore. Tale ambiguità può presentarsi trasmutata in una mutevole gamma di varianti che ne delineano la dinamicità testuale: riassumendo, si potranno avere freddure, sarcasmi, allusioni, prefigurazioni e immagini. Il tutto è inserito all’interno di un più vasto ambito polisenso, che tenderebbe a plasmare un universo contenutistico ed espressivo del tutto estraneo alla morale vigente. Che non sia frainteso quanto detto: la polisemia rappresenta l’apice dell’intuizione poetica. Tale non è comune ai più, e chi si vanta di possederla dovrebbe renderne manifesti i segni. Ciò che intendo dire è che se il poeta fosse prima di tutto un artista, la sua sensibilità sarebbe superiore a quella della turba e la sua lungimiranza gli permetterebbe di prospettare un mondo, un’ etica, una morale che prescindano i vincoli spaziali e temporali del proprio periodo storico, innalzandosi a messaggi universalmente trans-temporali. Questo determina, secondo ragione, la differenza tra un opera d’arte e la usa mediocre imitazione. Si può, allora, ben intendere come la Comedìa dantesca rappresenti uno dei più alti vertici della poetica poiché possiede le fondamentali caratteristiche richieste ad un’opera polisemica. E ciò, paradossalmente, è progenie di un individuo oggettivo ed assoluto, un esemplare universale di uomo. La constatazione di ciò dovrebbe favorire l’analisi dell’opera dantesca, perlomeno facilitarla, essendo tal uomo, definito totale, chiave di lettura della sua stessa produzione: difatti, nei sei aspetti che bisognerebbe considerare quando ci si accosta ad una qualsiasi opera dottrinale, l’autore, associato all’obiettivo cui tende l’opera stessa e al genere della dottrina, non varia rispetto alla totalità del lavoro. Parafrasando la XIII epistola dell’Alighieri, quella indirizzata al Can Grande della Scala, centrale nello studio della Commedia, si avrebbe conferma di ciò. Si passa quindi ad un autoesegesi del poema cristiano che secondo il Poeta è dotato di due significati: il primo si definisce letterale, il secondo allegorico o morale o, ancora, anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi:

“Durante l'esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio. Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benché questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso”.


Alla luce di queste affermazioni, si può ben capire come, conseguentemente all’intenzione del poeta di prospettare questa duplicità, l’opera sia caratterizzata da ben due soggetti, attorno ai quali ruotano i rispettivi sensi. Ad una prima lettura perciò il soggetto dell’intera Commedia riguarda essenzialmente la condizione delle anime dopo la morte; se, in verità, si scava nel senso allegorico il soggetto è esclusivamente l’uomo che, meritando o non meritando, alla luce del libero arbitrio, è gratificato dal premio o dannato al giusto castigo. E così in un continuo incatenarsi, anche la forma si presenta duplice: la forma del trattato e la forma da trattare. La prima è, ancora, triplice poiché la Commedia appare divisa in tre Cantiche, le quali a loro volta sono composte da Canti, i quali, infine, sono scanditi in versi. La forma concepita come modo di trattare è, invece, poetica, inventiva, descrittiva, digressiva, transuntiva, definitiva ed esemplificativa. I significati della Commedia, costruiti poeticamente per mezzo della scienza medievale, e per scienza intendo scibile, appaiono quindi come messaggi universali in codice polisemico, che permettono alla parola scelta di prescindere se stessa, caricandosi di immagini e scenari nuovi, inaspettati: la parola è tutto, quanto per l’autore tanto per il lettore. Quello che, altresì, voglio cercare di spiegare è la grande intuizione dantesca della lingua come canale preferenziale di emozioni, nelle loro componenti sensoriali di vista, olfatto, tatto, gusto ed udito. La parola diventa il centro focale della narrazione della Commedia, ciò che permette una descrizione verisimigliante di un mondo indescrivibile: tanto verisimilmente da condizionare l’immaginario popolare dell’aldilà, determinando una connessione strettissima e con il periodo storico in cui l’opera è stata scritta e con le generazioni successive di quanti si approcciarono al testo. La veritade ascosa in bella menzogna diventa mezzo attraverso cui tendere verso la concezione cristiana di figura, indicando l’uomo terreno, vivente, solo come prefigurazione di quel che sarà dopo la sua morte: non esiste un Dante Alighieri, nato nel 1265 a Firenze da una famiglia guelfa piccolo-nobiliare; e né esiste quel Dante che perdutosi nella selva oscura, pieno di dubbi e peccati, raggiunge l’Empireo per volontà di Colui che tutto move; Dante, come ogni uomo, sarà solo tale quando perderà la sua natura umana. Allora si rivelerà la vera figura e la verità che ciascuno nasconde nella propria carnalità. È per questo, secondo Auerbach, che l’Alighieri può usufruire di personaggi appartenenti alla classicità pagana in funzioni impreviste, rendendo, oltreché complessa la struttura dell’opera, enormemente misericordiosa la volontà del dio cattolico. La parola è ancora tutto. Per Arianna Punzi, difatti, la Commedia andrebbe interpretata ricostruendo una sorta di “memoria delle cose e delle parole”, che rende la polisemia stessa analizzabile sotto una molteplicità di approcci critici. In particolare si metterebbe in luce la grande abilità dantesca di conferire alla rima, già di per sé ricca di notevoli spunti poetici, un luogo privilegiato, un luogo dotato di sovrasenso tale da illuminare l’interpretazione complessiva del verso. Se, invero, la parola è tutto, lo stesso si dica del verso! E tale constatazione rappresenta la base di quella letteratura che si è sviluppata da Dante in poi. Non importa se per scopi diversi; se Petrarca tendeva alla armonia, Ariosto ad un rimico romanzo o il D’Annunzio a sublimare la bellezza: il verso rappresenta il centro di connessione tra il mondo dell’immaginario e il reale, tra la poesia e l’eterno. Così, magistralmente, tra allegoria e verso, l’Alighieri ha costruito il più grande esempio, mai concessoci, di polisemia, un messaggio volto a tutti coloro in grado di intendere.