“Durante l'esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio. Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benché questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso”.
Alla luce di queste affermazioni, si può ben capire come, conseguentemente all’intenzione del poeta di prospettare questa duplicità, l’opera sia caratterizzata da ben due soggetti, attorno ai quali ruotano i rispettivi sensi. Ad una prima lettura perciò il soggetto dell’intera Commedia riguarda essenzialmente la condizione delle anime dopo la morte; se, in verità, si scava nel senso allegorico il soggetto è esclusivamente l’uomo che, meritando o non meritando, alla luce del libero arbitrio, è gratificato dal premio o dannato al giusto castigo. E così in un continuo incatenarsi, anche la forma si presenta duplice: la forma del trattato e la forma da trattare. La prima è, ancora, triplice poiché la Commedia appare divisa in tre Cantiche, le quali a loro volta sono composte da Canti, i quali, infine, sono scanditi in versi. La forma concepita come modo di trattare è, invece, poetica, inventiva, descrittiva, digressiva, transuntiva, definitiva ed esemplificativa. I significati della Commedia, costruiti poeticamente per mezzo della scienza medievale, e per scienza intendo scibile, appaiono quindi come messaggi universali in codice polisemico, che permettono alla parola scelta di prescindere se stessa, caricandosi di immagini e scenari nuovi, inaspettati: la parola è tutto, quanto per l’autore tanto per il lettore. Quello che, altresì, voglio cercare di spiegare è la grande intuizione dantesca della lingua come canale preferenziale di emozioni, nelle loro componenti sensoriali di vista, olfatto, tatto, gusto ed udito. La parola diventa il centro focale della narrazione della Commedia, ciò che permette una descrizione verisimigliante di un mondo indescrivibile: tanto verisimilmente da condizionare l’immaginario popolare dell’aldilà, determinando una connessione strettissima e con il periodo storico in cui l’opera è stata scritta e con le generazioni successive di quanti si approcciarono al testo. La veritade ascosa in bella menzogna diventa mezzo attraverso cui tendere verso la concezione cristiana di figura, indicando l’uomo terreno, vivente, solo come prefigurazione di quel che sarà dopo la sua morte: non esiste un Dante Alighieri, nato nel 1265 a Firenze da una famiglia guelfa piccolo-nobiliare; e né esiste quel Dante che perdutosi nella selva oscura, pieno di dubbi e peccati, raggiunge l’Empireo per volontà di Colui che tutto move; Dante, come ogni uomo, sarà solo tale quando perderà la sua natura umana. Allora si rivelerà la vera figura e la verità che ciascuno nasconde nella propria carnalità. È per questo, secondo Auerbach, che l’Alighieri può usufruire di personaggi appartenenti alla classicità pagana in funzioni impreviste, rendendo, oltreché complessa la struttura dell’opera, enormemente misericordiosa la volontà del dio cattolico. La parola è ancora tutto. Per Arianna Punzi, difatti, la Commedia andrebbe interpretata ricostruendo una sorta di “memoria delle cose e delle parole”, che rende la polisemia stessa analizzabile sotto una molteplicità di approcci critici. In particolare si metterebbe in luce la grande abilità dantesca di conferire alla rima, già di per sé ricca di notevoli spunti poetici, un luogo privilegiato, un luogo dotato di sovrasenso tale da illuminare l’interpretazione complessiva del verso. Se, invero, la parola è tutto, lo stesso si dica del verso! E tale constatazione rappresenta la base di quella letteratura che si è sviluppata da Dante in poi. Non importa se per scopi diversi; se Petrarca tendeva alla armonia, Ariosto ad un rimico romanzo o il D’Annunzio a sublimare la bellezza: il verso rappresenta il centro di connessione tra il mondo dell’immaginario e il reale, tra la poesia e l’eterno. Così, magistralmente, tra allegoria e verso, l’Alighieri ha costruito il più grande esempio, mai concessoci, di polisemia, un messaggio volto a tutti coloro in grado di intendere.
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